Se per noi tuffarci nel mare è un’esperienza rilassante e divertente, per il popolo di Israele (e più in generale per l’uomo biblico) il mare rappresenta un luogo ignoto e oscuro, un luogo da temere. Nelle buie profondità del mare l’uomo si sente minacciato perché in balia di una natura che non può controllare. Nella Bibbia si racconta di come il mare sia abitato da creature mostruose capaci di inghiottire intere navi (basta pensare al famoso episodio del libro di Giona). Il mare diventa quindi simbolo del male.

Se per l’uomo moderno e contemporaneo, figlio delle scoperte geografiche, osservare il mare fino all’orizzonte apre al desiderio di infinito, cioè a ciò che è più grande di noi, per l’Ebreo il mar Rosso (e successivamente il Mediterraneo) fa emergere dal profondo del cuore il terrore di essere di fronte all’ignoto, alla natura incontrollabile; di fronte al male. Il popolo di Israele è stato, infatti, un popolo di santi, eroi e poeti, ma non un popolo di naviganti. Per l’Israelita Dio solo può salvare l’uomo dal mare e dalla sua minaccia. È grazie all’intervento divino, mediato da Mosè, che gli Ebrei in viaggio riescono ad attraversare il mar Rosso a differenza dei soldati egiziani. Con Dio al proprio fianco, neanche il mare fa più paura.

 
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