«Cammina. Senza sosta cammina. Va qui e poi là. Trascorre la propria vita su circa sessanta chilometri di lunghezza, trenta di larghezza. E cammina. Senza sosta. Si direbbe che il riposo gli è vietato.» Con queste efficaci parole, il letterato e poeta francese Christian Bobin inizia la sua descrizione di Gesù di Nàzaret (CHR. BOBIN, L’uomo che cammina, Qiqajon, Magnano [BI] 1998).

Il viaggio rappresenta una costante della vita di Gesù: basta pensare che egli, il Signore della vita, è nato in viaggio, profugo – con i suoi genitori – per editto dell’imperatore Augusto. Per quanto ne sappiamo dal racconto degli evangelisti, la sua vita è intrisa di viaggi, di spostamenti, a piedi e in barca. Solo nei nove mesi della sua gestazione è condotto da Maria prima da Nàzaret ad Ain Karin, presso Elisabetta, e poi a Betlemme per il censimento. Appena nato per sfuggire all’invidia di Erode, la santa famiglia deve scappare in Egitto prima di poter far ritorno in Galilea, dove Gesù rimarrà fin verso i suoi trent’anni. Curiosamente l’unico episodio dei trent’anni di “vita nascosta” di Gesù che conosciamo dai Vangeli è proprio un viaggio, meglio un pellegrinaggio, da Nàzaret a Gerusalemme.

Nei tre anni del suo ministero pubblico Gesù viaggia lungamente, sempre accompagnato dai suoi dodici amici e dalle donne che lo servivano. Mezzo di trasporto preferito sono i piedi, ma non disdegna attraversate in barca come pure – almeno nell’ingresso a Gerusalemme – l’utilizzo di una cavalcatura.

Ma il suo camminare fisico non è che il riflesso di un movimento più radicale, che coinvolge tutta la sua persona: è quanto san Paolo chiama lo «svuotarsi» di Cristo, disceso sulla terra per condividere la vita degli uomini fino alla morte e successivamente innalzato alla destra di Dio Padre: «Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. […] Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome…» (Fil 2,5-11). In questa opera di svuotamento, il Verbo di Dio, coeterno con il Padre, «pone la sua tenda» in mezzo all’umanità, secondo l’immagine del prologo del Vangelo di Giovanni (cfr. Gv 1,14).

Nella vita di Gesù grande importanza ha il viaggiare verso Gerusalemme, la città santa, luogo scelto da Dio fin dall’Antico Testamento per porre la propria presenza. I Vangeli descrivono diversi viaggi verso la “Città della pace”, ma è soprattutto san Luca a porre molto del materiale sulla vita di Gesù in una lunga discesa dalla Galilea verso Gerusalemme (cfr. i capitoli da 9 a 23).

Ma alla vigilia di questo viaggio Luca narra l’episodio della trasfigurazione sul monte Tabor. Apparsi Mosè ed Elia nella gloria, essi con Gesù «parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme» (Lc 9,31). È molto significativo che l’itinerario fisico ed esistenziale di Gesù sia descritto come “esodo”, come uscita da sé per ricevere un’identità più piena e duratura.

Gesù compirà tale esodo donando la sua vita sulla croce e risorgendo il terzo giorno secondo le Scritture. La Lettera agli Ebrei qualifica questo percorso esistenziale come «obbedienza»: «Nei giorni della sua vita terrena [Cristo] offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5,7-9).

Il viaggiare di Gesù appare dunque come un viaggio nell’obbedienza al Padre. È un viaggio concreto che si apre a una trasformazione esistenziale. Non stupisce che la tradizione cristiana abbia interpretato il pellegrinaggio come occasione di rinnovamento spirituale. C’è invece da rammaricarsi del fatto che sempre di più tale rinnovamento venga percepito in termini astratti e non incarnati nel corpo, che – come insegna il viaggio – giunge alla meta solo a prezzo di fatica e sudore.

 
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